La storia delle ferrovie italiane: un tributo alle macchine di acciaio che, da oltre un secolo, accompagnano i viaggiatori lungo la costa tirrenica.

Ferrovie

All’interno della rassegna di letture in compagnia del Tirreno, una pagina dedicata alla storia delle ferrovie, un tributo alle macchine di acciaio che accompagnano la costa da oltre un secolo, permettendo di scoprire il Tirreno nel connubio treno + bici.

Testi estratti dal libro “Le ferrovie” di Stefano Maggi.

(treno+bici  lungo il Tirreno)

Servizi postali

I viaggiatori del Settecento e del primo Ottocento, in pieno illuminismo, vivevano il risveglio economico e sociale dei popoli, alimentato dalla libertà di circolazione delle idee e delle persone, ma anche delle merci e dei capitali. In quel periodo si affermò una delle più importanti mode culturali dell’età moderna: il Grand Tour, il viaggio all’estero dell’alta borghesia europea, in cui era coinvolta anche l’Italia: una tappa fondamentale che francesi, inglesi e tedeschi non volevano trascurare.

(riviera di Chiaia, Vanvitelli 1700)

Merci e persone si muovevano grazie ai servizi postali, pubblici e privati. Solo nobili, commercianti e comandanti militari disponevano di carrozze e cocchieri personali, ma anche loro, per spostarsi su lunghe distanze,  erano soggetti a diverse formalità, come permessi, autorizzazioni e visti consolari, nonché al pagamento di pedaggi per attraversare i ponti.

Lungo le strade si trovavano le stazioni postali, attrezzate per il cambio dei cavalli e il riposo dei viaggiatori, a cui si aggiungevano alberghi, locande e osterie. Le stazioni di posta erano situate ogni circa 15 km in pianura, ogni 8-9 km altrove, secondo la distanza che una coppia di cavalli poteva percorrere senza fermarsi.

La “posta” venne assunta spesso come unità di misura. Per le 23 poste da Firenze a Roma, un vetturino impiegava cinque giorni. Questo sistema di conteggio della distanza sparì soltanto all’arrivo delle ferrovie, con le quali venne adottato il metodo dei chilometri, introdotto in Francia nel 1840.

(strade postali nel 1774)

Intere aree della penisola risultavano pressoché ignote perché poco accessibili, soprattutto al sud, ma anche al nord qualora si trovassero lontane dai percorsi delle strade postali. Fuori dai pochi itinerari dei viaggiatori, esisteva un’Italia periferica dimenticata, la cui popolazione viveva quasi esclusivamente di autoconsumo.

(Da Genova a Pisa, Portafoglio 1774)

Avvento della ferrovia

La ferrovia, con il connubio tra carbone e ferro, rappresentò uno dei principali emblemi dello sviluppo. Si arrivò a pensare  che la locomotiva, come principale simbolo del progresso, dovesse arrivare a collegare ogni città e ogni paese.

(posa binari nell’Agro Pontino)

La filosofia del “positivismo” diffondeva il convincimento che la scienza avrebbe risolto i problemi dell’uomo, avviando una condizione di benessere e di pacifica convivenza. Con il procedere della rivoluzione industriale e con il suo espandersi nel continente, fin dai primi anni ’30 sembrò che crescesse la distanza tra le nazioni all’avanguardia dello sviluppo e quelle rimaste indietro, allo stadio preindustriale.

In una società ancora del tutto priva di automobili, il treno era l’unico mezzo di trasporto meccanico e risultava abbastanza naturale vederlo come portatore di sviluppo e legame indispensabile con il proprio tempo.

Dove non arrivavano rotaie, le persone erano costrette a spostarsi con esasperante lentezza a bordo di carri trainati da animali, del tutto anacronistici in un mondo in cui stava entrando in scena la velocità.

(Omnibus a Roma, 1845)

In Italia, l’avvento della ferrovia coincise con il processo di unificazione nazionale, rappresentando molto più che un sistema di trasporto: costituirà agli occhi degli uomini del Risorgimento un veicolo indispensabile per la rinascita civile del popolo italiano e per l’unione economica degli stati della penisola.

Le costruzioni ferroviarie furono alla base di libertà di commercio, lega doganale, federazione politica, uniformità delle monete, dei pesi e delle misure. Formalità doganali e gabelle vennero eliminate, mentre i viaggi diventarono più sicuri e l’arrivo più certo, con un sistema di orari che determinò anche significativi mutamenti nella società dell’epoca, avverando gran parte delle speranze riposte dai pensatori risorgimentali nell’arrivo del treno.

“L’importanza delle ferrovie nello stadio di trasformazione civile e politica, pel quale l’Italia procede ora al compimento de’ suoi destini, è grande e molteplice oltre ogni dire.
Le ferrovie, richiamando pei varii passaggi dell’Alpi, che l’arte umana è intenta a rendere accessibili alla locomotiva, la corrente del traffico europeo verso gli scali italiani del Mediterraneo e dell’ Adriatico, sono destinate a suscitare ed a sviluppare, nelle nostre contrade da esse solcate, le latenti forze, le trascurate risorse economiche, ed a restituire alla penisola il passato splendore nell’ordine degli interessi materiali.

Sono esse le ferrovie, che, collegando colla rapidità dei mezzi di trasporto le varie parti della penisola, disgiunte e scomposte fino ad ora, più che per le circostanze topografiche, per la molteplicità di Stati distinti, per i disparati principii di governo, e per le vedute preponderanti di straniera tirannide o diffidenza, debbono cementare mirabilmente la appena conquistata unità politica della patria, fornire a questa la possibilità di opporre ai suoi nemici esterni pronti mezzi di difesa, e dissipare qualunque timore di ostacoli duraturi al più normale suo interno ordinamento”. (Stefano Jacini, ministro dei Lavori pubblici del costituendo Regno d’Italia, 1860)

Paure e ostilità

Il treno rappresentava il primo e più vistoso prodotto della rivoluzione industriale che si diffondeva in città e campagne. Agli entusiasti, facevano da contraltare tutti coloro ancora prevenuti, animati dalle più disparate paure.

Erano infatti presenti diffusi timori nei confronti del mostro di ferro che veniva a sconvolgere un mondo e un paesaggio statici da secoli, almeno sul piano tecnico.

Un bello e orribile
Mostro si sferra,
Corre gli oceani,
Corre la terra:

Corusco e fumido
Come i vulcani,
I monti supera,
Divora i piani;

Sorvola i baratri;
Poi si nasconde
Per antri incogniti,
Per vie profonde;

Ed esce; e indomito
Di lido in lido
Come di turbine
Manda il suo grido,

Come di turbine
L’alito spande:
Ei passa, o popoli,
Satana il grande.

Passa benefico
Di loco in loco
Su l’infrenabile
Carro del foco.

Salute, o Satana,
O ribellione,
O forza vindice
De la ragione!

Giosuè Carducci

Innovazioni

La ferrovia rappresentò la prima forma di organizzazione strettamente legata all’orologio, simbolo stesso dell’aumentata complessità della vita umana. Gli orologi di stazione venivano regolati ogni giorno, a seconda dell’ora indicata dal capotreno del primo convoglio del mattino.

Gigantesche opere testimoniavano l’epoca delle grandi scoperte tecnologiche e del dominio dell’uomo sulla natura. Il canale di Suez (1869) e la galleria del Moncenisio (1871) nell’immaginario collettivo erano preordinate a un solo fine, quello di accorciare la distanza fra Occidente e Oriente.

(lavori al Sempione)

Velocità e volumi esplosero improvvisamente. Il traforo del Moncenisio veniva percorso in 40 minuti di treno, contro le 12 ore circa che occorrevano sulla carrozzabile montana. Al tempo risparmiato si aggiungevano le tonnellate di merci  movimentate su un solo convoglio, al posto di centinaia di carri trainati dagli animali.

L’ultima delle grandi gallerie alpine fu il Sempione, rimasta la più lunga del mondo fino al 1979. L’impresa del Sempione venne immortalata in un manifesto che mostrava due  diavoli usciti dalle viscere della terra, fino a raggiungere l’imbocco del tunnel per guardare la locomotiva.

La lunga galleria fu persino vista come il simbolo della concordia tra i popoli, in un periodo di disordini in varie parti del mondo: “debellar gli elementi per riunire e affratellare le genti“.

L’arrivo della ferrovia venne a sconvolgere agglomerati urbani quasi immutati da secoli, portando gradualmente una serie di modifiche tanto rilevanti da rendere, dopo qualche anno, le stesse città molto diverse.

Treni e tramvie consentirono il formarsi di grandi conurbazioni: i nuovi mezzi pubblici, veloci e a buon mercato, superavano il limite all’estensione urbana costituito dalla distanza che era possibile percorrere a piedi.

(Tram a Genova, 1918)

L’arrivo del treno spinse le città a dilatarsi, mettendole in diretta e continua comunicazione con le proprie campagne, con i porti e con gli altri centri.

Crebbe la popolazione dei centri maggiori, portando mutamenti nelle gerarchie urbane, nonché nella distribuzione demografica, accrescendo il peso delle città situate nei nodi di scambio ferroviario.

Le stazioni facevano breccia nello spazio chiuso cittadino, avviando l’espansione nelle campagne circostanti. Una porta aperta verso il mondo, tramite la quale viaggiatori, merci e idee partivano e arrivavano in città. Le prime stazioni vennero spesso costruite laddove le mura lasciavano varchi di accesso: Porta Nolana a Napoli,  Porta Nuova a Milano e Torino,  Porta Principe a Genova,  Porta Prato a Firenze,  Porta Fiorentina a Pisa,  Porta Maggiore a Roma.

(Stazione di Milano, 1942)

La stazione ferroviaria si impose come un corpo estraneo, a differenza della vecchia stazione postale, pienamente integrata nei centri urbani. Ampi spazi erano infatti richiesti per binari, edifici, scali merci, depositi di locomotive e vetture. Il novello complesso architettonico determinò grandi trasformazioni nelle mura medievali, nelle aree interne ed esterne a queste, nella viabilità, persino nel valore dei terreni.

“Le stazioni si somigliano tutte; poco importa se le luci non riescono a rischiarare più in là del loro alone sbavato, tanto questo è un ambiente che tu conosci a memoria, con l’odore di treno che resta anche dopo che tutti i treni sono partiti, l’odore speciale delle stazioni dopo che è partito l’ultimo treno.

Le luci della stazione e le frasi che stai leggendo sembra abbiano il compito di dissolvere più che di indicare le cose affioranti da un velo di buio e di nebbia. Io sono sbarcato in questa stazione stasera per la prima volta in vita mia e già mi sembra di averci passato una vita, entrando e uscendo da questo bar, passando dall’odore della pensilina all’odore di segatura bagnata dei gabinetti, tutto mescolato in un unico odore che è quello dell’attesa, l’odore delle cabine telefoniche quando non resta che recuperare gettoni perché il numero chiamato non dà segno di vita.”  (Se una notte d’inverno, Italo Calvino)

Di solito realizzata all’esterno della cinta muraria, rimase a lungo una strana appendice, fino a quando l’urbanizzazione non riuscì a inglobarla all’interno di un agglomerato molto più esteso, conseguenza dell’incremento demografico.

Dopo i primi fabbricati provvisori, gli architetti disegnarono palazzi classicheggianti nel progettare le stazioni definitive, seguendo il gusto ottocentesco di utilizzare ricercati ornamenti  per nascondere il volto industriale delle costruzioni.

(Genova, stazione Brignole)

La nuova stazione del treno doveva reggere il confronto con lo splendore dei più antichi palazzi pubblici. Nei centri maggiori erano veri e propri edifici monumentali, con grandi orologi ad arricchire le facciate. Lusso e sfarzo di epoche precedenti vennero riprodotti in pieno XIX secolo, sebbene la stazione di differenziasse per l’ampio utilizzo del ferro – simbolo dell’ottocento – nelle cancellate e soprattutto nelle pensiline, le quali costituirono l’elemento principe dei fabbricati ferroviari.

La tettoia fu  uno dei soggetti predominanti delle tante cartoline di stazione prodotte a partire da fine secolo nelle città:

“Ampia ed aerea, con ardite strutture quasi sempre in ferro, luminose vetrate e grandi spazi nei quali si muovevano ed operavano uomini e mezzi, la tettoia sottolineava il prestigio della stazione, ne conteneva e ne irradiava il traffico, era oggetto di stupore e di raffronto. Quella lucida piovra di geometrici tentacoli, di occhi ammiccanti rossi e verdi, tra sbuffanti ansiti di locomotive, era più magica che paurosa… era la vertigine provocata da un mutamento torbido ma affascinante, che si esprimeva per la prima volta nell’umanità con una voce e un cuore di macchine.” (Raffaele Calzini)

(stazione di Pisa)

La presenza degli edifici ferroviari ridisegnò i contorni delle città. Le stazioni diventarono un centro di richiamo per locande, alberghi, abitazioni, attività commerciali. La piazza della stazione divenne tra le più importanti dell’abitato. Analoga sorte per la strada di collegamento con il centro storico. I viali della stazione, all’inizio strade di campagna isolate dal contesto urbano, nel primo Novecento finirono per diventare le principali direttrici dell’espansione cittadina.

Alcuni centri arrivarono a trasformarsi gradualmente in “città ferroviarie”, dove tutta la vita ruotava attorno ai suoi impianti, con nuovi quartieri dove ospitare dipendenti ed operai.

Anche le stazioni dei borghi di campagna ebbero un ruolo propulsivo. Oltre all’orologio, in grado di dare a tutti l’ora esatta, erano presenti ufficio postale e telegrafico, giardinetti, bagni pubblici, negozi ed osterie, diventando un ritrovo per gli abitanti dei dintorni.

Il capostazione rappresentava una nuova autorità, alla stregua del sindaco, del medico, del maresciallo, del parroco. Dove invece il centro medievale era situato in altura, la stazione del treno costruita a valle divenne sede di un nuovo abitato, fino a formare i cosiddetti “paesi scalo”.

(Massa Centro, dalla collezione fotosferica Tirrenica360... )

Idee, viaggi, emancipazione

Treno e telegrafo determinarono importanti progressi nelle comunicazioni. La ferrovia permise il trasporto della stampa quotidiana a lungo raggio, mentre le linee telegrafiche consentirono di stampare in città diverse i giornali nazionali, facilitandone e velocizzando la distribuzione capillare delle informazioni.

Il viaggio era un’esperienza nuova in Italia, dove all’ostacolo delle montagne si aggiungevano le divisioni politiche.

La stazione assunse nell’immaginario il ruolo di simbolo dell’inizio o della fine dei viaggi,  luogo dell’incontro o dell’addio, della partenza verso posti sconosciuti.  Una funzione fino ad allora prerogativa dei porti marittimi.

Uscire dalla propria città o dal proprio paese significava allora varcare i confini della conoscenza per avventurarsi nell’ignoto, anche perché non vi era alcuna dimestichezza con le distanze e con le carte geografiche. Il treno, che con una frequenza e una velocità sconosciute alle vecchie diligenze partiva e arrivava ogni giorno, divenne così l’emblema del collegamento tra gli italiani, attraverso le tante stazioni disseminate nella penisola.

(San Remo, 1927)

La velocità della ferrovia aveva modificato il rapporto tra viaggiatore e territorio. Lo scompartimento tagliava via tutto ciò c’era tra una stazione e l’altra. I trasporti divennero più anonimi, allentando i rapporti con i luoghi attraversati.

Usciva lentamente di scena il viaggio in carrozza e con esso l’occasione di osservare con attenzione usanze e costumi tipici del luogo, nonché la possibilità di modificare l’itinerario nel suo sviluppo.

Regna ivi una grande animazione: tutti si siedono a tavola e mangiano maccheroni ed ottime frittate; vi si beve però del pessimo vino. Ad ogni momento sopraggiunge una carrozza od una persona a cavallo od una squadra di sbirri che tornano da perlustrare la vicina foresta, ho sentito uno di questi vantarsi di aver freddato il giorno innanzi con una schioppettata un brigante. Abbiamo visto anche arrivare da Porto d’Anzio un convoglio di galeotti, seduti sopra un carro, incatenati a due a due; fra di essi vi erano dei bei giovani, vestiti pulitamente, con cappelli di paglia, camice linde, cravatta di seta svolazzante; giunti a Roma, questi dovevano essere lasciati in libertà. Si porta loro del vino, dei sigari, ed i birri, stando vicino, col fucile in ispalla, accettano essi pure quanto viene loro offerto. Tali sono le scene che si possono godere a Fontana di Papa. Poi la strada corre per due ore entro le macchie che costeggiano le paludi pontine sino a Terracina, coprendo la spiaggia del mare, e che sono abitate da cignali, da porcospini, da bufali, da tori, dalla febbre e dai briganti, che sbucan fuori di là per svaligiare sulla via Appia, o presso Cisterna, o presso For’appio, o sotto le rocche di Terracina, i viaggiatori. (Ferdinand Gregorovius,  Passeggiate per l’Italia, 1906)

Le soste del treno confinavano il viaggiatore al contesto ferroviario, generalmente estraneo alla società locale, caratterizzato da un linguaggio particolare, da fabbricati specifici staccati dai paesi, da personale specializzato spesso venuto da lontano. Il vetturino, invece,  era conosciuto da tutti, portatore di merci e notizie da scambiare con luoghi vicini e lontani.

(Notte in treno, Hopper, 1918)

Si esaurì la tradizione del Grand Tour, che lasciò il posto a forme di visita turistica completamente nuove, inaugurate nell’Italia unita dal primo viaggio collettivo intrapreso da Thomas Cook. Con l’affermazione del turismo programmato su larga scala, prendeva piede un nuovo tipo di viaggiatore, anticipando il turismo di massa del secolo a venire.  Gli ultimi esponenti del Grand Tour, come John Ruskin e Henry James, che utilizzarono sia le diligenze che la ferrovia per i loro itinerari, mostrarono un certo rimpianto per il calesse di posta e per il viaggio gelosamente individuale.

Isolamento e comodità delle vetture ferroviarie spinsero a leggere durante il tragitto, facendo sorgere edicole, librerie e centri per il prestito librario nelle principali stazioni.

La moda della lettura in treno spinse  a pubblicazioni dedicate al viaggio ferroviario. Si affermarono, oltre alle collane tascabili dedicate alle maggiori opere letterarie, anche le “guide del viaggiatore”,  con cui si cercava di recuperare l’interesse per il paesaggio attraversato.

(orario ufficiale, 1865)

Altro genere di lettura, non meno importante, era l’ “Indicatore Generale. Orario ufficiale delle strade ferrate e della navigazione del Regno d’ltalia” del 1863, seguito nel 1899 dall’ “orario ufficiale delle strade ferrate, delle tramvie, della navigazione e delle messaggerie postali”.

Tali guide ferroviarie sono di grande importanza per ricostruire i costumi del tempo: nelle stesse venivano riportate le norme per accedere ai treni, evolutesi non poco nel corso degli anni.

La separazione sociale era rigida: gli arredamenti vellutati della 1° classe  richiamavano i palazzi dei nobili, quelli in tessuto non pregiato della 2° erano ispirati alle case borghesi, quelli in legno della 3° rispecchiavano gli appartamenti popolari, ristretti e spartani. In qualche linea, come la Benevento Napoli e la Napoli-Castellammare, esisteva inizialmente anche la 4° classe, composta di carri con una panca accanto alla parete.

Grazie ai treni le donne cominciarono a spostarsi per la prima volta da sole. Le norme prevedevano ambienti a loro destinati. Muoversi in treno, specialmente sulle lunghe distanze, costituiva un vero avvenimento  e richiedeva un abbigliamento da viaggio specifico. Presero piede  vestiti femminili più comodi e dalle fogge semplici, con gonna, giacchetta e mantello. Stoffe solide e morbide, con tinte scure, capaci di tenere lo sporco.

(Hopper, 1938)

Diverse stazioni  videro nel tempo aggiungersi un secondo e talora un terzo nome, come “Forte dei Marmi-Seravezza-Querceta”, per la pressante richiesta dei comuni di accrescere la propria visibilità turistica.

Fascismo e riorganizzazione

Mussolini, nella necessità di acquisire consenso, dedicò particolare attenzione al riordino dei servizi pubblici, la cui efficienza e funzionalità divennero il simbolo dell’ordine ristabilito.

Le ferrovie, gravate da bilanci in perdita e contraddistinte da una forte corporazione sindacale, furono uno dei servizi più trasformati dal regime. Oltre 50.000 furono gli “esonerati” colpiti dai licenziamenti, scelti in gran parte tra attivisti e simpatizzanti dei partiti socialista e comunista, con la motivazione spesso fittizia dello “scarso rendimento”.

Littorine ed elettricità

Negli anni ’20 si cominciarono a elettrificare diverse tratte ferroviarie, come la Genova-Livorno,  spinti dai promettenti sviluppi dell’energia idroelettrica, definita il “carbone bianco”. I maggiori interventi si ebbero però  a seguito dell’embargo sul carbone e sui combustibili liquidi, inflitto dalla Società delle Nazioni per l’attacco dell’Italia all’Etiopia.

L’avvento delle motrici elettriche permise di ridurre sensibilmente i tempi di percorrenza. Sulla linea Pisa-Roma si passò dalle 6 ore del 1920 alle 3 ore e 20 del 1939.

(Littorina a Milano, anni ’30)

Sulle linee secondarie furono introdotte le “Littorine” automotrici con motore a scoppio e la rivoluzionaria testata aerodinamica, nate dalla volontà di realizzare un autobus su rotaia, per contrastare la crescente concorrenza automobilistica.

Si trattava di carrozze automotrici con cabine di guida alle due estremità, in grado quindi di muoversi autonomamente ed essere “reversibili”, evitando quindi il problema di riposizionare la locomotiva al termine della corsa.

Vennero così  battezzate  nel 1932, quando una di esse effettuò la corsa di prova per l’inaugurazione della città di Littoria (l’odierna Latina nell’Agro Pontino), con Benito Mussolini in cabina.

Treni popolari

Il regime organizzò svaghi di massa con grande successo. La tessera dell’Opera Nazionale Dopolavoro (OND) era destinata a persone di ogni ceto e dava diritto a sconti sui viaggi, sugli abbonamenti ai giornali, sull’ingresso al cinema, al teatro, nelle balere e alle partite di calcio.

Tra le più importanti organizzazioni dell’OND vi era il “dopolavoro ferroviario”, costituito con lo scopo di promuovere l’attività ricreativa dei ferrovieri, secondo la politica di consenso messa in atto nei confronti delle masse di lavoratori. In breve tempo il dopolavoro nacque in ogni centro ferroviario, anche di minima importanza.

A partire dall’agosto 1931, vennero istituiti convogli a “prezzo ridottissimo”. Dalle maggiori stazioni cominciarono infatti a partire i “treni popolari”, straordinari di sola 3° classe, con sconto fino all’80% sulla tariffa normale. I convogli popolari furono importanti poiché consentirono in Italia un’iniziale affermazione del turismo di massa, permettendo a migliaia di persone di raggiungere le località di villeggiatura e di prendere il treno per la prima volta.

Riguardarono però una parte limitata della popolazione, quella che viveva nelle grandi città e lavorava nelle fabbriche e negli uffici. Chi abitava nelle campagne e nei centri minori dovette attendere il secondo dopoguerra e l’avvento dell’automobile utilitaria per conquistare il diritto alla vacanza.

Ricostruzione e treni di lusso

Al termine della II guerra mondiale la situazione delle ferrovie era disastrosa. Fino al 1946 si continuò a viaggiare con mezzi di fortuna. La ricostruzione fu finanziata in misura determinante dal “Piano Marshall” con cui, tra l’altro, si completò la nuova stazione di Roma Termini, inaugurata nel 1950.

(fine della guerra, archivio FS)

Nel 1952 venne alla luce l’Etr 300, un treno veloce dotato dei migliori comfort, subito ribattezzato “Settebello” per le sette carrozze che componevano il convoglio. Il “rapido di lusso” (in principio così classificato negli orari) era dotato di 160 posti era in grado di viaggiare a una velocità massima di 180 km/h. Delle sette vetture, quattro avevano compartimenti per viaggiatori, una il bagagliaio e i servizi, una comprendeva cucina e dispensa, una era dedicata a ristorante e bar.

Gli allestimenti  erano i migliori dell’epoca, con il condizionamento dell’aria, il servizio di audiodiffusione, l’isolamento termico e acustico. Ciascun compartimento conteneva dieci posti, dei quali sei sui divani e quattro su poltroncine individuali che si potevano spostare a piacere.

Il Settebello aveva una particolarità unica: la sopraelevazione delle cabine di guida, in modo da creare alle due estremità dei salottini belvedere dotati di undici posti ciascuno, dai quali si poteva ammirare il panorama e godere l’ ebbrezza della velocità.

(panorama dal Settebello, archivio FS))

Nel 1960 entrarono in funzione gli “Arlecchino”. La concezione tecnica era la stessa del Settebello, erano però composti di quattro carrozze anziché sette. Erano chiamati “Arlecchino”, per la diversità di tinte impiegate nella tappezzeria delle vetture.

Il Settebello rappresentò il principale emblema della compiuta ricostruzione e dell’Italia che aveva ricominciato a muoversi. Nella qualità degli allestimenti ricordava i grandi transatlantici o i lunghi treni di categoria “lusso” come l’Orient Express, ma l’epoca dei magnifici viaggi nel velluto stava volgendo rapidamente al termine: i transatlantici avrebbero in breve tempo ceduto il posto ai più spartani ma molto più veloci aerei, mentre il treno avrebbe iniziato a soccombere di fronte alla versatilità degli autoveicoli.

Boom e treni

Lo sviluppo economico italiano successivo alla ricostruzione presentò caratteri eccezionali, fino a far parlare di “miracolo economico”. I consumi privati pro capite raddoppiano in meno di 15 anni, quando il precedente raddoppio, un secolo prima,  aveva impiegato il triplo del tempo . Un processo di crescita tanto intenso e tumultuoso portò trasformazioni strutturali che investirono l’intera vita sociale del paese.

(Vespa, 1955)

La vita quotidiana delle persone subì in poco tempo un mutamento epocale: i consumi delle famiglie iniziarono infatti una forte ascesa. Per la prima volta si diffusero beni durevoli: dalle cucine economiche a legna, che avevano già trovato posto in casa durante il fascismo, si passò all’acquisto di frigoriferi, lavatrici, mobili migliori e soprattutto tanti beni di consumo prima inesistenti o appannaggio dei ceti abbienti.

Il comparto dei trasporti produsse cambiamenti rivoluzionari, prima grazie agli scooter e poi alle autovetture utilitarie. La motorizzazione individuale a quattro ruote, iniziata nel 1955 con il lancio commerciale della Fiat 600, consentì nel giro di pochi anni una completa libertà di movimento anche alle classi meno agiate, determinando il definitivo affermarsi di importanti fenomeni sociali, primo fra tutti il pendolarismo.

La facilità di viaggiare causò modificazioni in tutti i campi, compreso quello urbanistico, con la crescita di immense periferie dormitorio, dalle quali ogni mattina partivano intere famiglie. Si registrò infatti un progressivo distacco tra luoghi di abitazione e luoghi di lavoro, nonché una dispersione dei centri di ritrovo e di svago.

(Fiat 500, 1957)

Nelle ferrovie, la 3° classe fu parificata alla 2°. Ci fu anche l’introduzione delle carrozze a cuccette per la notte, molto più economiche delle tradizionali vetture letto.

Con la massificazione della mobilità, le ferrovie perdevano ulteriori fette di mercato. Buona parte dell’opinione pubblica riteneva il treno un mezzo di trasporto superato.

(casello autostradale)

Nel 1961 il giornale automobilistico “Quattroruote” sfidò e vinse il Settebello con una Giulietta Alfa Romeo, in una corsa tra Milano e Roma che segnò simbolicamente il passaggio dal treno all’automobile nei trasporti sulle lunghe distanze. Con oltre mezz’ora di anticipo la macchina arrivò a via Veneto, il cuore della “dolce vita” da poco immortalata nel celebre film di Federico Fellini. Aveva vinto nonostante l’ “Autostrada del Sole” terminasse a Firenze, costringendo l’automobile a proseguire sulle strade consolari.

(Quattroruote 1961)

Treni della speranza

In Italia, il fenomeno migratorio interessò prima le Americhe, poi l’Europa continentale, quindi il “triangolo industriale” del nord. L’emigrazione utilizzò in gran parte il treno, con i nuovi “direttissimi” che collegavano l’Italia ai paesi del nord Europa, tanto diversi da quelli di “lusso” della Belle Époque a cavallo dei due secoli.

(Parigi- Brindisi, archivio FS)

L’ “Italien-Holland Express”, un lungo convoglio di vetture ordinarie, letti e cuccette, partiva ogni giorno da Roma e arrivava, con le sue varie sezioni, fino a Bruxelles, Amsterdam, Amburgo, Copenaghen, Stoccolma.

Dalla Sicilia partivano il “Treno del Sole” per Genova-Torino e la “Freccia del Sud” per Bologna-Milano. Insieme ai “treni del levante” dalla Puglia, assecondarono il processo di migrazione interna, percorrendo tutta la penisola a basse tariffe, per garantire la necessaria manodopera alle industrie del settentrione in costante sviluppo.

A bordo dei lunghi direttissimi della notte, nei posti a sedere o nelle cuccette a seconda delle possibilità economiche, arrivarono con un traffico continuo migliaia di emigranti in cerca di fortuna.

I “treni della speranza”, che collegavano il sud al nord, con il loro carico umano rappresentarono il simbolo della fuga dal disagio e dalla miseria verso un mondo, quello industrializzato, ritenuto più ricco e progredito.

(treni della speranza, archivio FS)

Il treno perdeva gradualmente il contatto con l’evolversi della mobilità e persino della tecnologia, invecchiando inesorabilmente. Per quasi mezzo secolo dopo la fine della guerra, le ferrovie rimanevano un settore statico in mano all’ amministrazione pubblica. L’azienda veniva utilizzata come serbatoio di manodopera, le tariffe di biglietti e abbonamenti rimanevano stazionarie e le merci rappresentavano poco più del 45% degli introiti, contro il 64% del 1938.

Mentre in ferrovia diminuivano gli orari di lavoro, i camionisti viaggiavano senza sosta e senza controlli, con costi decisamente inferiori. I mezzi su gomma erano del resto favoriti dalla crescita della rete di strade che dai 175.000 km del 1955 passava ai 302.000 km nel 1987, con un parallelo progresso nella larghezza e nell’asfaltatura del fondo stradale. Ancora più impressionante era l’aumento delle autostrade, passate dai 479 km del 1955 ai 6.000 km del 1987.

(Quattrotuote 1967)

Anche i viaggi individuali aumentavano con ritmi esponenziali, imprevisti da chiunque. Il numero di autoveicoli circolanti passava infatti da circa 1,2 milioni nel 1955 a 16 milioni nel 1975, per toccare addirittura i 31 milioni nel 1991. In Italia la densità di mezzi a quattro ruote arriva ad essere una delle maggiori del mondo, con 1,8 italiani per ogni autoveicolo.

Mentre la macchina diventava essenziale nella società e nell’economia, il treno risultava sempre meno strategico. Nel nuovo scenario della mobilità nazionale, il senso comune della gente stava ormai associando il treno al trasporto degli emigranti, che in migliaia lasciavano i paesi del meridione.

La perdita di terreno si registra perfino nelle cartine geografiche: i tracciati ferroviari, evidenziati con particolare enfasi nelle mappe di inizio novecento, nel corso del secolo si riducono a una sottilissima linea nera quasi invisibile, a vantaggio della viabilità stradale, rappresentata anche nei percorsi più minuti.

Stazioni dimenticate

Con le nuove tecnologie di controllo remoto  si ridimensionava anche il ruolo del capostazione, figura che da sempre aveva colpito l’immaginario con la propria uniforme impeccabile, sulla quale spiccava il berretto gallonato rosso fiammante.

(Capostazione nel suo ufficio)

Con l’automazione delle linee, da attive oasi fiorite in mezzo a paesi e cittadine, le stazioni secondarie subiscono il taglio del personale e finiscono preda dei vandali.  Complice la chiusura delle biglietterie e l’abolizione del trasporto merci a collettame sui bagagliai, con cui, fino agli anni ’90 era possibile andare in qualsiasi stazione a consegnare pacchi e merci da spedire ad altre stazioni.

(leve manuali alla stazione Termini, anni ’30)

Ultimo viaggio

L’Italia cambia, e con essa i treni della notte, quei lunghi convogli che collegavano il meridione e il settentrione dal secondo dopoguerra in poi. Complice anche la liberalizzazione dei servizi di trasporto dei primi anni 2000, con la proliferazione dei bus in servizio tra sud e nord e la crescita dei voli low cost.

Il servizio dei treni notte veniva lentamente ridimensionato: nel giugno 2007 spariva il “Treno dell’Etna” da Torino per Palermo e Siracusa; nel marzo 2010 spariva la “Freccia del Sud” da Milano a Reggio Calabria, Siracusa e Agrigento. Nel dicembre 2011, dopo 57 anni terminava il “Treno del Sole”, il convoglio da Torino per Palermo e Siracusa che pochi decenni prima aveva addirittura ispirato il nome all’ “Autostrada del Sole”.

(partenze, Archivio FS)

Ultimo viaggio, Da oggi niente più collegamenti diretti tra Sud e Nord, per risalire lo stivale bisognerà fare almeno una tappa a Roma. Addio, proprio nell’ anno centocinquantesimo dell’Italia unita, al Treno del Sole, ma anche al Conca d’Oro (Palermo-Milano), al Freccia del Sud (Catania-Milano), al Treno dell’Etna (Siracusa-Torino), alla Freccia della Laguna, il Palermo-Venezia. Tutti vagoni protagonisti di una seconda unificazione del Paese, con l’incontro-scontro tra dialetti e culture, l’emigrazione di massa, la partecipazione degli operai meridionali al boom economico nazionale. (“La Stampa” , 11 dicembre 2011)

Rivoluzione ferroviaria

Nei primi anni 2000, molte stazioni cambiavano aspetto,  trasformate in grandi centri commerciali. Seguendo l’esempio degli aeroporti, venivano ristrutturati gli spazi, cercando di riconvertire la stazione da luogo per viaggiatori a luogo per cittadini e turisti.

(Stazione Termini)

Intanto i vecchi treni, protagonisti per gran parte del Novecento, erano stati completamente sostituiti. Ormai si viaggiava in genere su rotabili di aspetto moderno, con colori vivaci e dotati dei comfort e delle tecnologie del tempo, dal climatizzatore alla chiusura centralizzata delle porte esterne. I nuovi treni sono “reversibili”, una caratteristica a lungo appannaggio esclusivo di elettrotreni e “littorine”.

Cambiano anche i sistemi di sicurezza: apparecchiature elettroniche al posto del controllo umano incrociato.

Per rilanciare il treno e per inserirsi a pieno titolo nella rete europea, si proponeva il progetto delle ferrovie ad “alta velocità” a 300 km/h, adottando il modello francese. Linee con pochissime stazioni, interdette al traffico merci. Un modello opposto a quello che aveva ispirato la direttissima Roma-Firenze, concepita invece per un traffico misto viaggiatori/merci e legata ai centri principali lungo il percorso.

La nuova infrastruttura ebbe un lungo periodo di gestazione e trovò numerosi avversari, che in opposizione al progetto di realizzare poche linee ad alta velocità, chiedevano un miglioramento complessivo della rete.

Allo stesso tempo si avviava il progetto per le fermate dell’alta velocità, con le quali iniziava una nuova storia della stazione, tornata a essere una sorta di monumento cittadino, come nel periodo fra Otto e Novecento. Per la progettazione di queste grandi infrastrutture, situate a Napoli Afragola, Firenze Belfiore, Roma Tiburtina e Torino Porta Susa, le Fs promuovevano concorsi internazionali.

Nel 2013 le nuove logiche di mercato mettevano in discussione il ruolo storico di servizio pubblico. Si insediava infatti l’autorità per la regolazione dei trasporti.

Il libro mercato faceva ingresso nelle ferrovie. Si trattava di una rivoluzione gestionale, che rovesciava il modo d’intendere il trasporto ferroviario, considerandolo in via primaria come un oggetto del mercato in luogo di un servizio pubblico, quale era sempre stato.

La liberalizzazione evidenziava un problema di grande significato sociale: che fine avrebbero fatto le tratte meno remunerative? I treni privati dei nuovi operatori, non finanziati dalla mano pubblica, si inserivano ovviamente nelle rotte nelle quali il servizio risultava vantaggioso.

Ma il servizio “universale”, a beneficio di tutti, a chi interessa? Al fine di evitare che la liberalizzazione si traducesse soltanto in risparmi e tagli, occorrevano  sostegni precisi per mantenere il servizio e tutele per i lavoratori.

(letture, Archivio FS)

Nei primi anni 2000, oltre alla rigenerazione delle carrozze anni ’80, dotandole di climatizzatori e arredi aggiornati, entravano in servizio “Minuetti”,  “Jazz” e  “Swing”, secondo i suggestivi nomignoli musicali adottati da Trenitalia. Per le tratte ad alta frequentazione vengono progettate le carrozze a due piani dei treni “Vivalto”.

Nel 2015 entra in scena  il “Frecciarossa 1000”  un treno in grado di toccare la velocità di 400 km/h e di raggiungere una velocità commerciale di 360 km/h. Il nuovo treno può viaggiare su tutte le reti Alta velocità d’Europa.  L’unificazione europea non può fare a meno dei veloci treni elettrici, esattamente come l’unificazione italiana non poté prescindere dai potenti treni a vapore.

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Malaria e ferrovia

La nascita dei “paesi scalo” fu molto frequente nelle zone costiere spopolate da secoli a causa di pirati e malaria. La presenza della ferrovia, con i suoi caseggiati e le sue stazioni, avviò una sorta di risorgimento igienico.

Una commissione d’inchiesta ferroviaria portò nel 1882 a pubblicare la Carta della malaria in Italia, passaggio fondamentale per comprendere quanto il male fosse sviluppato e quanto risultasse urgente un intervento. La malaria era grave, oltre che in Sardegna, lungo la fascia adriatica e ionica, nonché sulla costa tirrenica, dalla Liguria alla Campania. Le paludi coprivano il 12% circa del territorio nazionale, le febbri malariche interessavano il 35 % dell’Italia, colpendo anche gli abitanti di grandi città come la stessa Roma.

Gli studi realizzati avevano portato a comprendere che la malaria si prendeva soprattutto al buio con il caldo, pertanto veniva raccomandato ai viaggiatori notturni di non dormire e tenere ben chiusi i vetri delle carrozze, quando in estate attraversavano località di malaria.

La commissione accertò che il morbo si estendeva molto più di quanto si credesse, interessando circa il 45% delle strade ferrate, e che le condizioni dei ferrovieri e delle loro famiglie, migliaia di persone dimoranti in terre malariche nei caselli e nelle stazioni, erano assai infelici. Si scoprì, inoltre, che i fossi scavati per realizzare le scarpate delle linee ferroviarie, essendosi riempiti di acque stagnanti, avevano aumentato l’incidenza della malaria proprio nelle zone attorno ai binari. segue…

Treni storici

Rispetto ai tempi davvero lontanissimi della locomotiva a vapore, era veramente cambiato tutto e come succede spesso in occasione di mutamenti epocali, il “vecchio” che sparisce diventa “antico” e acquista un valore simbolico nel ricordo delle persone, ricercato come una rarità e apprezzato a dispetto delle critiche che ne avevano accompagnato l’esistenza, o nel caso del treno il servizio ordinario. La rivoluzione ferroviaria cominciava così a far percepire il valore della storia della ferroviaria.

(treni storici e turismo)

“Un pulviscolo di carbone ancora aleggia nell’aria delle stazioni dopo tanti anni che le linee sono state tutte elettrificate, e un romanzo che parla di treni e di stazioni non può non trasmettere quest’odore di fumo” (Se una notte d’inverno un viaggiatore, Italo Calvino)

A partire da fine Novecento i treni storici erano sempre più richiesti dal pubblico, assumendo tn tutto il mondo industrializzato un ruolo di erande richiamo, a partire dal paese dove la ferrovia era nata e dove di conseguenza era stata sempre più forte la sua presenza nell’identità collettiva.

(Museo di Pietrarsa)

Il movimento per salvare antichi treni e antichi impianti ferroviari fu avviato in Gran Bretagna all’inizio degli anni 50 di fronte a un notevole scetticismo.
Neppure i promotori avevano ipotizzato che nei successivi decenni alcuni semplici appassionati avrebbero potuto rimettere in piedi e gestire numerose strade originali ferrate, mantenute integralmente con le loro caratteristiche originali.

L’eliminazione di locomotive a vapore e di “rami secchi” ferroviari dava origine al movimento per il loro salvataggio, che diventava nel giro di pochi anni uno dei più importanti passatempi popolari legati alla storia, con un continuo aumento degli amatori che si occupavano di preservare le ferrovie. Poter ricreare un vero e proprio ambiente storico, un museo funzionante, rappresentava un’affascinante avventura per centinaia di cultori, ma anche un eccezionale richiamo per milioni di visitatori.

Un movimento analogo in Italia nasceva negli anni ‘90, quando iniziava la vera e propria modernizzazione delle ferrovie nella penisola, ma riceveva poi un’attenzione crescente, fino alla costituzione all’interno di Fs, di una specifica Fondazione, realizzata nel 2013, “per preservare, valorizzare e consegnare integro, a vantaggio anche delle generazioni future, un Patrimonio di storia e di tecnica, simbolo del progresso e strumento di rafforzamento dell’unità degli Italiani”.

Anche in Italia gli antichi treni e tutti i manufatti ferroviari cominciavano a essere considerati opere di “archeologia industriale”.  E così la sbuffante locomotiva, la vecchia Littorina, o le antiche carrozze Centoporte di 3° classe dai sedili in legno, procedevano insieme ai convogli avveniristici e trovavano un nuovo impiego e un nuovo apprezzamento nei viaggi per diporto, con il treno utilizzato non tanto per spostarsi da un luogo all’altro, quanto per gustare il lento viaggio di un’altra epoca, si potrebbe quasi dire di un altra Italia , vicina a noi nel tempo ma lontana nella mentalità comune.

Il sorpasso

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Letture

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